mercoledì 19 dicembre 2012

Caso Budroni. Rinviato a giudizio l’agente che sparò

Dino Budroni 


da Agenzia Stampa Italia – 19 dicembre 2012

Alessia Lai e Tommaso Della Longa per Agenzia Stampa Italia

(ASI) È stato rinviato a giudizio per omicidio colposo Michele Paone, l’agente di Polizia che all’alba del 30 luglio 2011, alla fine di un inseguimento in auto sul Grande Raccordo Anulare di Roma, esplose il colpo di pistola che uccise Bernardino Budroni. Era apparso subito chiaro che Dino, per i familiari e gli amici, era morto in circostanze poco chiare: orari che non coincidono, incongruenze nelle perizie, testimonianze discordanti.
Il processo, che inizierà il 1 ottobre del 2013, potrà fare luce sui “tanti dubbi” che secondo la sorella Claudia costellano questa dolorosa vicenda che ha strappato un figlio e un fratello ai suoi familiari.Una vicenda “complessa” anche secondo il PM Giorgio Orano, che ha visto confermata dal GUP Parasporo la sua richiesta di procedere per omicidio colposo con l’aggravante della previsione dell’evento. L’avvocato della famiglia Budroni, Michele Monaco, aveva chiesto un’imputazione per omicidio volontario con premeditazione: “Speravamo in qualcosa di più”, ci ha detto, “ma almeno c’è il processo, questo è importante”. Ora Michele Paone è un imputato. Faccia da “bravo ragazzo”, si è presentato in Tribunale praticamente “scortato” da una decina di persone, all’apparenza poliziotti in borghese, presumibilmente suoi colleghi.
Paone è rimasto seduto, in silenzio, a pochi metri dai familiari di Dino, il papà, la mamma e la sorella, ma non si è mai avvicinato a loro. Alla richiesta di una dichiarazione sua o del suo assistito, l’avvocato Giampiero Mendola – che aveva chiesto l’archiviazione in base all’articolo 53 del codice penale, quello che contempla l’uso legittimo delle armi da parte di un tutore dell’ordine – ha affermato: “Non ne abbiamo mai rilasciate e non lo faremo ora”.
Tra poco meno di un anno la famiglia Budroni vedrà iniziare il processo contro l’agente che ha ucciso Dino, la speranza è quella che il dibattimento possa fare piena luce su una vicenda piena di ombre.

 



martedì 23 ottobre 2012

Caso Budroni, non è finita qui

Chiesto il rinvio a giudizio per Michele Paone, l’agente sospettato di aver ucciso a sangue freddo Dino Budroni sul Gra di Roma 

di Alessia Lai e Tommaso Della Longa

Gli atti sono stati depositati e la richiesta di rinvio a giudizio è arrivata. “Mirando alto e colpendo con uno dei due colpi il Budroni Bernardino” l’agente scelto Michele Paone poneva in essere un “comportamento altamente imperito e imprudente” uccidendo Dino, 39 anni, muratore, figlio, fratello. L’agente di polizia che esplose il colpo è ora indagato per omicidio colposo, ma nell’uso legittimo delle armi in base all’articolo 53 del codice penale, con in più “l’aggravante di aver agito nonostante le previsione dell’evento”.
Intanto sono soddisfatto del fatto che ci sarà il processo”, afferma l’avvocato della famiglia Budroni, Michele Monaco, perché non sarebbe il primo caso simile a essere archiviato. È importante che il pm, ci dice l’avvocato che ha rappresentato anche la famiglia di Gabriele Sandri, abbia individuato delle responsabilità “indagando per omicidio colposo  con previsione dell’evento”. Un’imputazione importante, che però non riesce a diradare le ombre, troppe, sul quel che è accaduto all’alba del 30 luglio 2011 sul Gra, a Roma, quando Dino Budroni venne ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente Paone durante un inseguimento in auto.
Forse al posto di “durante” andrebbe messo un “dopo”, perché dai rilievi infortunistici e dalle testimonianze dei presenti, tutti membri delle forze dell’ordine, in realtà sembra emergere, come supponemmo nei precedenti articoli sul caso, che i colpi siano stati esplosi a vetture praticamente ferme. Quel che accadde prima dell’inseguimento, Dino che dà in escandescenze fuori dall’abitazione della ex ragazza, che danneggia il portone e l’ascensore con la sua martellina da muratore lo ha fatto etichettare come “lo stalker” dai giornalisti di nera che l’anno scorso si occuparono del caso. Un aggettivo che pare quasi voler alleggerire l’esito drammatico di quella serata folle. Gli orari di quella serata si sovrappongono, non sono mai chiari, ma quello che conta, purtroppo, è solo quello che accade nel breve tratto di raccordo anulare all’alba del 30 luglio e che in pochi minuti ha segnato per sempre la vita della famiglia Budroni.
Considerata la dinamica dei fatti, come testimoniata dagli agenti presenti e confermata dai rilievi stradali, a non tornare, in questa vicenda, è più di un particolare. Nella perizia balistica, nella quale si afferma che il colpo mortale, il secondo esploso dall’agente di polizia Paone, avrebbe trapassato il torace di Dino mentre il giovane effettuava una brusca manovra, sterzando repentinamente verso destra, e a una velocità compresa fra gli 80 e i 50 km orari.
Tuttavia i rilievi sui danni subiti dalle vetture per la Ford di Dino parlano di un segno sul guardrail “compatibile non con un vero e proprio urto ma con una manovra di accostamento”. Se Dino fosse stato colpito a una velocità anche solo di 50 km orari, presumibilmente i danni alla vettura e i segni sul guardrail sarebbero stati di entità più rilevante di una semplice “strisciata”. La perizia balistica tuttavia continua a parlare di un fatto accaduto mentre le auto erano ancora in marcia, a una velocità rallentata rispetto ai quasi 200 chilometri all’ora testimoniati dai presenti, ma certo non bassissima. Non risulta siano state rilevate tracce di una brusca frenata che potrebbe giustificare un repentino rallentamento, e gli stessi testimoni, compreso l’agente Paone, parlano solo di bruschi scartamenti della macchina, i tentativi di Dino di speronare i suoi inseguitori. Tra l’altro una frenata brusca avrebbe causato presumibilmente la perdita di controllo dell’auto da parte di Dino e non certo un avvicinamento al guardrail che ha lasciato l’auto con danni limitatissimi. Il secondo colpo sarebbe poi stato esploso a una distanza più ravvicinata rispetto al primo, tra i 2,4 e i 4,6 metri, rispetto ai 4/5 del primo. Ma anche questo sembra non combaciare con l’ipotesi della brusca sterzata verso destra. Dà piuttosto l’impressione di un avvicinamento tra le due vetture. E non è tutto. Rimasto “segreto” fino al deposito degli atti, emerge il ritrovamento di una pistola a salve sul sedile dell’auto di Dino. Un dato mai riferito ai familiari né al loro avvocato fino alla decisione di rinvio a giudizio.
Ma è un dato che non riesce ad avere il valore del “colpo di scena”. Le fasi del ritrovamento, secondo quanto riportato nei verbali, pone più domande che risposte.  La pistola giocattolo non è stata vista da nessuno nella macchina di Dino, se non in una fase successiva all’estrazione del corpo dalla macchina, quando l’ispettore Cascio, membro dell’equipaggio della seconda volante della Polizia coinvolta nell’inseguimento, la ha rimessa nel posto nel quale afferma di averla trovata a una prima ispezione della vettura immediatamente dopo il fatto. Nessuno dei suoi colleghi, né delle volanti né della radiomobile carabinieri, ha visto la pistola a salve durante tutte le operazioni svolte attorno alla vettura nella quale ancora era accasciato Dino, in fin di vita. L’unico ad averla vista sul sedile è stato il poliziotto che la ha presa e messa nella propria volante, per poi riposizionarla nella presunta posizione originaria. Una pistola, della cui esistenza, peraltro i familiari erano ignari.
A leggere il fascicolo nella sua interezza, insomma, l’impressione è che le ipotesi iniziali restino confermate: la traiettoria del proiettile nel corpo di Dino è compatibile con una inclinazione del corpo verso destra che secondo la perizia balistica indica l’accompagnamento della brusca sterzata, ma che potrebbe invece corrispondere al gesto di un uomo che vedendo puntata su di se un’arma si getta sulla destra in modo istintivo, sollevando il braccio sinistro a proteggersi. E sulla pistola c’è poco da dire, quanto meno andrebbe chiesto al poliziotto che la ha ritrovata per quale ragione la abbia sottratta dalla Ford di Dino per poi rimettercela, peraltro in una posizione in realtà poco compatibile con una folle corsa a zig zag a 200 km all’ora, e cioè adagiata sul sedile del passeggero e non sul pavimento dell’auto come la martellina. Per l’avvocato della famiglia Budroni è comunque un dato irrilevante perché “nessuno ha visto Dino Budroni armato”. Lo dimostra il fatto che “nemmeno la difesa di Paone ha avuto interesse a rendere noto” il ritrovamento dell’arma-giocattolo. Anche perché, continua Monaco, se fosse stata  valutata utile a sminuire le colpe del poliziotto, la pistola “sarebbe di certo finita sui giornali” in qualche maniera. È fiducioso, il legale: “Se la pistola fosse stata giudicata rilevante, anche dallo stesso pm, staremmo parlando non di un processo ma di una archiviazione”.
Tutto vero, e condivisibile. Restano comunque i dubbi di una famiglia. Difficile arrendersi alle strategie processuali. Conoscere la reale dinamica dei fatti da un lato non riporterà Dino ai suoi cari. Ma per i suoi familiari, pensare che ci possa essere stato il tentativo di mistificare la scena della morte di Dino è un dolore in più. Ora, comunque, la famiglia Budroni attende di conoscere la data della prima udienza, pronta a rivivere il dolore, alla ricerca della verità.

martedì 4 settembre 2012

Morte al posto di blocco: l’assassino porta la divisa?

da Panorama – 4 settembre 2012
di Tommaso Della Longa
Il nostro racconto inizia circa un anno fa, il 21 agosto 2011. È quasi sera a Buonabitacolo, un paese di 2825 anime in provincia di Salerno: qui ci si conosce tutti. È ora di cena, il sole è tramontato da poco, ma le luci in strada ancora non sono state accese. I carabinieri improvvisano un posto di controllo di routine, dietro una curva, forse in una posizione non da manuale per fermare in sicurezza gli automobilisti. Un carabiniere sta redigendo un verbale a due ragazzi fermati in motorino senza casco. Il collega sta dall’altra parte della strada. Dalla curva spunta un motorino di cilindrata 50, marca kotir, con alla guida un ragazzo di 22 anni, Massimo Casalnuovo. Conosciuto da tutti come un bravo ragazzo, incensurato, ama il calcio e lavora nell’officina del padre, in quel momento sta tornando a casa. Massimo è senza casco quando gli si para davanti, dietro la curva, il carabiniere che aveva improvvisato il posto di controllo. Il ragazzo lo scarta e fa questa mossa forse solo per evitarlo. L’altro carabiniere, dall’altra parte della strada, scende dalla gazzella forse gli urla qualcosa, comunque cerca di fermarlo. Massimo prosegue e pochi istanti dopo è a terra, ormai tra la vita e la morte.
Non è armato, non è ricercato, non ha sfondato un posto di blocco, casa sua è a pochi metri da lì. Cos’è successo? Qui le versioni, come purtroppo troppo spesso succede in Italia, divergono. Il maresciallo dei carabinieri che è balzato fuori dalla macchina racconta che Massimo ha accelerato per evitare di essere fermato e ha perso il controllo del mezzo. Secondo il carabiniere quarantenne, Massimo avrebbe anche tentato di investire uno dei due militari. Per fortuna, però, i ragazzi presenti non rimangono in silenzio e raccontano cosa hanno visto con i loro occhi: “Il maresciallo dei carabinieri è balzato fuori dall’auto dove stava redigendo il verbale e ha cercato di fermare il motorino. Il conducente lo ha evitato, il militare ha sferrato un calcio sul lato sinistro del mezzo, un Beta 50. Il ciclomotore ha percorso ancora alcuni metri sbandando, poi è sbattuto contro un muretto a secco di un ponte che sovrasta il fiume Peglio. Il ragazzo che lo guidava è stato sbalzato a terra, aveva sangue sulla fronte e non appariva cosciente”, ha spiegato Emilio Risi al Corriere del Mezzogiorno. La sua testimonianza viene confermata da almeno un altro ragazzo che era sul posto. Ma la storia non finisce qui.
In tanti scendono in piazza capendo che era successo qualcosa di strano. I racconti parlano dei carabinieri che subito spostano la propria macchina e tentano di spostare il motorino di Massimo. La gente presente si mette a urlare, visto che quello è un tentativo di cambiare le carte in tavola prima dei rilievi. Alla fine solo la presenza di decine e decine di persone porterà all’arrivo della polizia, dopo che erano stati altri colleghi dei due carabinieri presenti a prendere i rilievi, non garantendo così un’imparzialità di giudizio. Il resto sono solo momenti concitati di disperazione: una prima ambulanza che arriva, ma non interviene perché non era attrezzata per un codice rosso, come se la segnalazione dei carabinieri presenti non fosse stata ben fatta. Poi l’arrivo di una seconda ambulanza, che trasporta il ragazzo ormai esanime. E la beffa di trovare i carabinieri andati in ospedale per farsi refertare il piede “per il tentato investimento” prima dell’arrivo del ragazzo.
Infine, il solito corollario di casi di questo genere, dove il probabile assassino porta la divisa: nei giorni successivi subito si mette in pista la macchina comunicativa che cerca di infangare la memoria di Massimo, come se qualcuno cercasse una scusante per quella morte senza un motivo plausibile. Tentativo fallito, visto che in poco tempo si è creato un comitato per la verità e la giustizia e tutta la comunità di Buonabitacolo si è stretta intorno alla famiglia Casalnuovo, tanto che anche il Sindaco ha indetto un consiglio comunale straordinario. Poi il silenzio. “Voglio sapere la verità: se il calcio c’è stato me lo devono dire”, è il grido di dolore di Osvaldo, il papà di Massimo. “Dopo più di un anno io non so nulla, non conosco il motivo della morte di mio figlio. Il Pm che sta indagando non si è neanche degnato di presentarsi, né tanto meno i carabinieri o le istituzioni: è calato il silenzio e nient’altro. Quello che tutti devono capire è che in quel maledetto momento poteva esserci chiunque di noi. Io voglio la verità e poi chiederò giustizia. E lo voglio fare perché una cosa del genere non possa più capitare a nessuno”.
Proprio il ruolo delle famiglie in situazioni come questa è determinante: senza il coraggio di padri, madri o fratelli che combattono per la verità molto probabilmente di casi come questo nessuno ne sentirebbe mai parlare. Dal punto di vista legale, abbiamo potuto consultare in esclusiva per Panorama la perizia sul motorino, dove si può ben vedere la foto della plastica rotta dello scooter in corrispondenza del calcio sferrato dal carabiniere, come raccontato dai testimoni. E abbiamo potuto leggere anche quella sullo scarpone del carabiniere. Gli accertamenti tecnici effettuati dalla Polizia Scientifica di Roma, in data 7 febbraio 2012, hanno evidenziato “striature di colore nero sulla parte bassa della carena del ciclomotore (con ogni probabilità i segni dello stivale del maresciallo ndr) nonché sulla porzione di gomma di colore nero prelevato dalla suola della scarpa destra, in corrispondenza della punta lato anteriore sx, una microstriatura di colore azzurro (lo stesso colore della vernice dello scooter di Massimo ndr)”. L’unica notizia è la proroga alle indagini: chiesta a marzo, la risposta è arrivata solo a fine luglio, quando invece si tratta di un atto che normalmente richiede al gip poche ore di lavoro. Non si capisce, poi, per quale motivo si sia aspettato circa un mese per il sequestro degli scarponi del maresciallo dei carabinieri, quando invece il motorino e le scarpe di Massimo sono stati giustamente sequestrati subito. Il resto è tutto uno sconfortante silenzio.
A oggi un esame autoptico non è stato ordinato e vorremmo capirne i motivi. Non ho potuto ancora leggere le testimonianze rese dai ragazzi presenti e dagli stessi carabinieri – spiega Cristiano Sandri, avvocato da poco nominato dalla famiglia Casalnuovo – come voglio conoscere quali siano state le comunicazioni al 118 e perché i carabinieri hanno lasciato il luogo del fatto prima del trasporto di Massimo in ospedale.  E poi non posso non sottolineare quanto meno la poca opportunità nell’aver trasferito i carabinieri sempre in coppia e solo in un altro paese e quindi facendoli rimanere nell’area di riferimento della stessa procura che sta indagando su di loro”. Già, nel caso di Riccardo Rasman a Trieste addirittura la procura aveva affidato le indagini agli stessi poliziotti che uccisero il ragazzo triestino. Anche su questo non c’è nulla di nuovo. Come sul silenzio che è calato a comando sulla vicenda. Addirittura ultimamente a una partita della Salernitana la famiglia avrebbe voluto esporre uno striscione che chiedeva solamente verità e giustizia, senza alcuna frase ingiuriosa. Il risultato? Permesso negato dalla questura di Salerno per una presunta “non compatibilità” con l’evento sportivo. Quello che è certo è che parenti e amici non si sono dati per vinti: nel primo anniversario tantissime sono state le persone presenti alla fiaccolata e al concerto in memoria di Massimo. E ora anche la “Buonabitacolo soccer” porta il suo nome. Perché nessuno ha voglia di dimenticare: tutta una comunità chiede solo verità. Ora la parola passa alla procura che deve rispondere a questo legittimo desiderio, sperando che non diano ragione al famoso monologo di Ascanio Celestini dal titolo “la divisa non si processa”.