Libri, “Quando lo Stato uccide”. Intervista agli autori
Tommaso Della
Longa ed Alessia Lai
I manifestanti alla Diaz e a Bolzaneto, Giuseppe
Uva, Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri sono
solo alcune delle storie narrate in “Quando lo Stato uccide” di Tommaso della Longa ed Alessia Lai.
Un libro- inchiesta pubblicato nel 2011 da Castelvecchi, un atto dovuto alle
vittime di “schegge” impazzite delle forze dell’ordine, corpi indifesi, morti
violente che lasciano impietriti familiari, amici, gente comune. Molte di
queste vicende sono sconosciute perché trattate con disattenzione dalle
istituzioni, dai media nazionali. Rilegate a qualche trafiletto sui giornali
locali, insabbiate dalle autorità competenti. Ma lentamente, il velo di
copertura sta scomparendo grazie alla rete, alle sentenze definitive che in
questi giorni hanno creato dei precedenti importanti, alla tenacia delle
famiglie e alla mobilitazione di parte dell’opinione pubblica. Mediapolitika
ha intervistato i due giornalisti, Tommaso Della Longa ed Alessia Lai perché
anche un libro può dare un contributo.
“Quando lo Stato uccide” è un libro
difficile da scrivere, non soltanto dal punto di vista emotivo: quali sono
state le difficoltà o anche le resistenze che avete incontrato nel corso della
scrittura e dopo, con la pubblicazione del libro?
È stato difficile cercare e trovare le storie
minori che raccontiamo nel libro. Per i casi più noti, quelli che sono riusciti
ad uscire dal silenzio e che la gran parte degli italiani bene o male conosce,
c’è molto materiale a cui attingere, comprese le testimonianze dei familiari,
già determinati nello sforzo di portare alla ribalta i casi che li hanno
toccati così da vicino e quindi più propensi a parlare, a raccontare. Ma nei
casi meno conosciuti, quelli che abbiamo “dissotterrato” scavando nelle
cronache locali, spesso ridotti a un trafiletto di poche righe dalle
informazioni scarsissime, il lavoro di ricerca è stato molto difficile, proprio
per la scarsità di notizie. Siamo riusciti a contattare i parenti o gli
avvocati delle vittime per approfondire le storie, in una delle quali le resistenze
sono arrivate proprio da alcuni familiari della vittima: è legittimo e
comprensibile che alcuni preferiscono il silenzio e una sofferenza “riservata”.
Nelle interviste ai sindacati di polizia abbiamo faticato un po’ ad ottenere i
colloqui, alcuni non hanno mai risposto alla nostra richiesta, ma tutto sommato
chi ci ha parlato è stato sempre corretto e disponibile. Dopo la pubblicazione
le uniche resistenze, e sembra assurdo, sono arrivate dagli ambienti della
sinistra radicale, che storicamente si è sempre occupata di questi argomenti:
il curriculum degli autori non piaceva, e il nostro libro è stato boicottato
apertamente.
C’è una storia che avete trattato nel
libro che vi ha colpito di più?
Ognuna delle storie che raccontiamo, dalle più
note a quelle sconosciute, è una tragedia che ci ha colpiti, perché abbiamo
trattato solo di casi nei quali le vittime erano sempre disarmate e non
costituivano un pericolo per gli altri, tanto meno per chi le ha uccise. Una
delle più dure è però quella di Riccardo Rasman, un ragazzo che lo Stato aveva
già mancato di proteggere ai tempi un cui fece il servizio di leva
obbligatorio. Allora Riccardo subì gravi atti di nonnismo che gli causarono una
patologia psichiatrica. Il giorno che venne ucciso la sua colpa fu quella di
avere “disturbato” i vicini dello stabile nel quale viveva, che chiamarono la
polizia. Riccardo venne malmenato, gettato pancia a terra e immobilizzato con
le manette ai polsi e del filo di ferro a tenergli ferme le caviglie. È morto
così. Come se tutto questo non bastasse il magistrato affidò le indagini sulla
sua morte agli stessi agenti che erano intervenuti nel suo appartamento. In
Italia accade anche questo.
Raccontando le storie dei ragazzi del G8
di Genova, di Gabriele Sandri, di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di
Giuseppe Uva e di tante altre vittime degli abusi delle forze dell’ordine,
siete riusciti a spiegarvi cosa possa spingere quest’ultime a compiere atti
così violenti?
Gli agenti di pubblica sicurezza sono uomini e
possono sbagliare. Ma un discorso simile avrebbe più senso se l’ambiente nel
quale vengono formati e lavorano fosse integerrimo. Così purtroppo non è: una
formazione spesso carente, un malinteso spirito di corpo che porta a pensare di
essere al di sopra della legge, portano ad aggravare i casi di abuso, di per sé
fisiologici. Perché quando l’apparato di pubblica sicurezza, si prodiga perché
non venga fatta luce sugli abusi commessi, e in alcuni casi addirittura
insabbiano e falsificano le prove del crimine commesso, allora c’è qualcosa che
non va. L’impunità che spesso è riservata a chi, nelle forze dell’ordine,
commette gli abusi, diventa purtroppo un lasciapassare per il comportamento
scorretto di chi non fa certo onore alla divisa.
Circa una settimana fa, la madre di
Federico Aldovrandi, Patrizia Moretti è stata vittima di insulti da parte di
Paolo Forlani, uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva per
l’omicidio del figlio. In particolare, sulla bacheca del gruppo di Face book
Prima difesa, Forlani scriveva: “Sfido chiunque a leggere gli atti e trovare un
verbale dove dice che Federico è morto per le lesioni che ha subito”.
Conoscendo la storia e avendo letto i verbali, cosa vi sentite di rispondere a
Forlani?
Che forse le lenti con le quali lui ha letto i
verbali e le perizie sono distorte dalla convinzione che chi indossa la divisa
possa massacrare un ragazzo stando sempre e comunque dalla parte della ragione.
Sarebbe opportuno un esame di coscienza da parte di questi quattro signori e di
chi li considera innocenti: hanno strappato alla famiglia un ragazzo nel pieno
della vita, hanno calpestato le leggi e i diritti che loro son chiamati, per
primi a tutelare. Forlani e i suoi colleghi dovrebbero fare un gesto dignitoso:
togliere la divisa che hanno infangato e disonorato con la loro violenza. Con
persone simili in giro per le strade, gli italiani hanno tutte le ragioni di
non sentirsi sicuri.
Venendo a conoscenza di queste storie, ad
oggi credete che i cittadini abbiano cambiato opinione riguardo alcune condotte
delle forze dell’ordine? E le istituzioni?
Da qualche anno a questa parte Internet ha
aiutato molto l’opinione pubblica a formarsi una coscienza rispetto a episodi
di questo genere. Il solo fatto che un abuso possa essere ripreso da un
telefonino e messo in rete, dove poi fa migliaia di contatti, pone le persone
di fronte a dati oggettivi che prima potevano scomparire dietro le versioni
ufficiali scritte nei verbali di polizia. Di conseguenza anche le istituzioni,
la Magistratura in primis, possono essere influenzate, e
positivamente, da questa evoluzione. La mediatizzazione di alcuni casi molto
noti ha portato e sta portando a sentenze finalmente più equilibrate riguardo
agli abusi delle forze dell’ordine. Le recenti condanne in Cassazione degli
agenti che hanno ucciso Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi, sembrano poter
dare la speranza che in futuro questo tipo di abusi possano essere giudicati in
modo più corretto. Ci auguriamo, insomma, che siano dei precedenti.
Udienza 21-12-2012 risarcimento danni
RispondiEliminacronaca Piccolo 22-12-2012 chisto danni ai pompieri
http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2012/11/22/news/rasman-chiesti-2-milioni-ai-pompieri-1.6074399